Nel cuore della provincia di Málaga, la bellezza drammatica di Ronda non ha mai lasciato indifferente nessuno. E quando dico nessuno, intendo proprio nessuno. Hemingway, Dumas, Orson Welles e Rainer Maria Rilke sono solo alcune delle tante celebrità che, negli anni, le hanno dedicato versi pieni d’amore. Nel 1800 divenne meta di un vero e proprio pellegrinaggio da parte degli intellettuali di mezza Europa, che viaggiavano alla ricerca di un posto che potesse incarnare l’ideale romantico di unione tra uomo e natura. Non gli è stato difficile trovarlo. Tenacemente abbarbicato sulle rocce, diviso in due dalla gola del Tajo, il pueblo blanco di Ronda fa pensare a una ferita aperta nella roccia che l’uomo abbia cercato alla bell’e meglio di suturare.
Le guide, oggi, parlano soprattutto della sua Plaza de Toros, considerata da alcune fonti la più antica di Spagna, e da tutte la più bella. Io, però, non ci ho nemmeno messo piede. Volutamente. Il fatto è che, per una volta, volevo mostrarvela da un’altra prospettiva; Dimostrare che c’è vita – e pure tanta! – al di là di quella tradizione taurina che, dagli spalti della Maestranza, si riversa un po’ monotona nelle vetrine dei negozi di souvenir.
Che dite, vi va di accompagnarmi?
Un momento! Per evitare spiacevoli sorprese, prima di partire è bene informarsi in merito alla documentazione richiesta e le restrizioni in vigore per frenare i contagi da Covid-19. Facciamo, quindi, un veloce recap:
- Per entrare in Spagna, arrivando dall’Italia, dovete presentare:
- Green Pass che certifichi alternativamente che:
siete guariti dal Covid-19
avete completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni
avete fatto un test PCR, molecolare o antigeno entro 48 ore dall’arrivo, che ha dato risultato negativo.- Questionario Spain Travel Health debitamente compilato (lo trovate a questo link). Una volta inseriti i vostri dati, si genererà in automatico un codice QR che vi sarà richiesto all’arrivo. Occhio: Lo controllano SEMPRE, molto più del Green Pass, quindi non fatevi trovare impreparati 😉 - La mascherina è obbligatoria solo all’interno, ma vi accorgerete presto che la maggioranza degli spagnoli continua a usarla anche per strada.
- Ristoranti e locali sono regolarmente aperti al pubblico, anche se con alcune limitazioni: in base alle ultime normative locali, in provincia di Málaga si possono sedere ad un unico tavolo un massimo di 6 persone all’aperto, e di 4 al chiuso. Nei bar non è consentito il consumo al banco, e i locali possono aprire all’interno solo se servono anche da mangiare. Le misure sono in continuo aggiornamento, quindi vi consiglio di consultare in ogni caso le fonti ufficiali prima dell’arrivo.
Il viaggio comincia alla Stazione di Málaga María Zambrano, aperto dall’espressione annoiata del ragazzo che valida i codici QR dei biglietti dietro a una barriera di plastica. Per raggiungere la mia destinazione ho scelto il treno: non sarà la soluzione più economica (costa 15 € in totale) ma è di certo la più comoda per chi, come me, è sprovvisto di patente.
Grazie all’alta velocità, in poco più di mezz’ora sono ad Antequera, dove trovo l’equivalente più pulito e puntuale di un regionale Trenitalia già fermo ad aspettarmi sul binario.
Un’ora dopo, Ronda mi abbraccia con la sua torrida bianchezza: è una cartolina di strade deserte e persiane abbassate nel tentativo di trovare un po’ di conforto dalle temperature torride del Luglio andaluso.
Perché è bene che lo sappiate: Málaga, d’estate, è governata dal Terral. Potrei descriverlo come un vento caldo e secco che arriva da Nord, ma è molto più accurato dire che è l’esperienza più simile che possiate provare a quella di una parmigiana che entra in un forno preriscaldato a 180 gradi. In pratica è una specie di asciugacapelli gigante che qualche divinità decide di accendere a caso per una quantità di giorni rigorosamente dispari – di norma da uno a tre. Va benissimo per stendere, passare il mocio e tenere i capelli in piega, ma se dovete dedicarvi a qualunque altra attività all’aperto finirete col maledire tutti i vostri avi, il sole, le stelle, e quel distratto di Dante Alighieri che s’è dimenticato di chiudere la porta dell’Inferno nelle sue peregrinazioni.
É quindi spinta da quest’amorevole venticello che trascino le ruote malconce del mio trolley fino al vicino Hotel San Francisco, dove passerò la notte. Trattasi di un alberghetto di 2 stelle senza troppe pretese, di quelli che però sanno farti sentire a casa. Se siete tipi da Jacuzzi e lusso sfrenato, vi dico subito di lasciarlo perdere. Se invece cercate solo un posto pulito dove appoggiare il sedere tra una passeggiata e l’altra, è il posto che fa per voi.
In pieno centro storico, con una passeggiata di 10 minuti arrivate dappertutto: dal Puente Nuevo alla zona del tapeo, fino alla Casa del Rey Moro e persino alla plaza de toros, se a differenza di me volete visitarla. Il personale, poi, è la gentilezza fatta persona.
La ragazza alla reception impiega mezz’ora buona per spiegarmi, cartina alla mano, tutto quel che c’è da vedere in città, compresi i ristoranti con prezzi abbordabili frequentati dai locali e l’ora in cui tramonta il sole, semmai volessi godermelo dal mirador più suggestivo. Prima di prendere la mia carta d’identità, si sfrega le mani con il gel idroalcolico, e fa lo stesso prima di restituirmela.
Non c’è che dire: le norme Covid, nel suo edificio, vengono prese sul serio.
Mi spiega che, per limitare il contatto con gli altri ospiti, la porta della caffetteria è stata adibita ad uscita: chiunque entri in hotel passa dalla reception; chiunque esca, dovrà farlo da lì. Non c’è neppure il rischio di passare in mezzo alla gente che fa colazione, perchè il servizio è stato temporaneamente sospeso.
Al suo posto, thermos di caffè appena sfornato, brocche di latte e acqua bollente vengono messi ogni mattina a disposizione degli ospiti.
Accanto ci sono bustine di tea e zucchero a volontà, l’immancabile gel idroalcolico, un dispenser di salviette per disinfettare i manici e dei bicchieri eco-friendly usa e getta da riempire con la bevanda preferita. La si può sorseggiare ovunque si desideri, anche sulla graziosa terrazza al terzo piano.
Come ultima raccomandazione, la receptionist mi chiede di lasciare la finestra spalancata al momento di abbandonare la stanza: in questo modo, l’ambiente farà in tempo ad arieggiarsi prima che gli addetti alle pulizie vi accedano. Un gesto semplice atto a proteggerli da possibili contagi. E, a proposito di stanza… la mia non è ancora pronta. Lascio, quindi, il trolley in una stanzetta chiusa a chiave e mi avventuro verso la prima tappa del mio itinerario (che è anche quella che attendo con più emozione): la Bodega Descalzos Viejos.
TAPPA #1: DEGUSTAZIONE DI VINI IN UN CONVENTO
Sin dai tempi del buon Ernest (Hemingway), Ronda è famosa per i suoi vini, tra i piú pregiati della provincia. Non stupisce quindi che siano numerosissime le bodegas sparse per la città, e che quasi tutte offrano – previa prenotazione- la possibilità di degustare il “nettare” che producono con sforzo e passione invidiabili. Descalzos Viejos ha, però, un vantaggio su tutte le altre: è stata costruita su di un monastero del sedicesimo secolo.
Secondo Google Maps, dista solo 22 minuti a piedi dall’Hotel San Francisco. Ed è qui che arriva la prima, grande, lezione del viaggio: Mai fidarsi di Google Maps.
Dico sul serio, ragazzi: non fatelo.
Una passeggiata di ventidue minuti con vista sulla natura mi sembrava un’opzione gradevole, persino con 40 gradi all’ombra. In fondo, è molto meno di quello che impiego ogni settimana ad arrivare da casa mia al Mercadona. Sono qui per fare turismo o no? Poi mi piace camminare. La strada è tutta dritta. Cos’ho da perdere?
Sulla carta (anzi, sullo schermo del cellulare) sembra tutto perfetto. Peccato che, dopo 22 minuti, le indicazioni di Google Maps si fermino all’imbocco di un sentiero sterrato. Davanti a me, il nulla. A sinistra, il nulla sotto ad un dirupo. A destra, un edificio che ha tutta l’aria d’essere abbandonato.
Non è proprio ciò che mi aspettavo, ma… vuoi vedere che è quella la Bodega? Google sa tutto per definizione, no?
Insomma, non sembra per niente un antico monastero ma chi può dirlo: magari ci hanno costruito attorno delle anonime pareti bianche per non destare attenzione. E magari non c’è nessun vialetto d’accesso perchè ammettono solo visitatori abbastanza motivati da accettare di farsi pungere le caviglie dalle ortiche pur di godersi un calice di buon vino. La gente è strana. Lancio un’occhiata furtiva allo schermo: niente, il segnalino rosso sul display punta proprio lì. Mi armo di pazienza e inizio a farmi strada tra rocce, fango e piante selvatiche, con buona pace dei miei sandali nuovi. Sono quasi arrivata all’edificio, quando ricevo una telefonata dalla guida che mi sta aspettando. Dopo un paio di tentativi (inutili) di spiegarle dove mi trovo e una (molto più efficace) foto su Whatsapp, scopro che per arrivare alla Bodega manca ancora un bel pezzo. Ci sono da percorrere almeno altri 15 minuti a piedi sul suddetto sentiero sterrato in mezzo al nulla, completamente privo d’ombra e con l’unica compagnia di qualche cicala che frinisce in lontananza. Maledette siano la Silicon Valley e le sue letterine arcobaleno.
Morale: se volete visitare la Bodega Descalzos Viejos, è meglio che vi procuriate un’ auto. In caso contrario, ci arriverete come me: con l’aspetto molto poco gourmet di una poveretta che non vede una doccia da tre giorni. Più che di vino, quando varco il portone della cantina, ho voglia di tracannarmi una caraffa d’acqua delle dimensioni di una persona alta.
Per fortuna, Carmen è abbastanza empatica da capirlo non appena mi vede. Del resto, immagino non ci voglia poi molto. Mi idrata a volontà nel piccolo ingresso finchè, poco a poco, recupero le forze e l’attenzione. Sarà lei l’incaricata di portarmi alla scoperta dei segreti e delle meraviglie di Descalzos Viejos: una giovane e preparata guida i cui occhi brillano in parti uguali quando parla di musica e del posto in cui lavora. Non ci metterò molto a scoprire che è anche un’eccellente pianista jazz, con una carriera divisa tra le improvvisazioni da solista e gli ingaggi del duo di cui fa parte. L’itinerario che propone – condiviso con altre 4 persone che, come me, hanno prenotato la visita in lingua spagnola – parte dagli enormi giardini per culminare nella splendida cappella affrescata dove oggi si ammassano le botti in cui invecchia il vino.
Oltre a lei, ci accompagna la mascotte del posto: un gattino di nome Dimitri, talmente famoso tra gli avventori da vantare addirittura un profilo instagram personale.
Carmen ci spiega che il monastero sui cui è stata costruita la bodega fu edificato nel 1505 dai monaci scalzi, a cui era affidato il compito di vigilare la valle nel periodo turbolento che seguì la riconquista cattolica. La collina su cui è arroccato, a metà strada tra Siviglia e Málaga, vanta, infatti, una vista privilegiata sui dintorni, che risultava perfetta per individuare e stroncare sul nascere eventuali rivolte, evitando che si propagassero nel resto della Regione.
In seguito ad un terremoto che distrusse buona parte della struttura originale, i monaci abbandonarono il convento per aprirne un altro nel centro della città. Lì rimasero solo i più anziani, dando inconsapevolmente all’edificio il nome per cui ancora oggi lo si conosce: descalzos viejos significa, infatti, “scalzi anziani”.
Quando anche questi ultimi se ne andarono, il monastero passò per diverse mani, finchè non lo comprarono gli attuali proprietari: due architetti (uno di loro con origini italiane) che hanno restaurato la struttura con competenza e buon gusto, preferendo mantenerne l’essenza originale anzichè peccare di “romanticismo” re-immaginando quello che era ormai andato perduto.
Il risultato è una location meravigliosa, immersa nella natura, con vista sul mare giallo dei campi andalusi in estate. Le mura che si apprezzano all’esterno sono ancora le originali e si intravede, in qualche accenno d’arco, la struttura che albergava le stanze da letto. Tutt’attorno è una profusione di alberi da frutta, tra cui un gigantesco e generoso avocado che sforna delizie 12 mesi l’anno.
Quando decidi di guadagnarti da vivere coi vini ti trovi inevitabilmente davanti a un bivio: puoi puntare sulla produzione industriale, riducendo il prezzo e sottomettendoti a ritmi vertiginosi che finiscono inevitabilmente col compromettere la qualità; O puoi sacrificare la quantità in nome di un tripudio di sapori. Descalzos Viejos ha scelto la seconda opzione.
Non a caso, la macchina per imbottigliare ha spazio per al massimo una decina di vuoti alla volta. Qui non si usano prodotti chimici e la vendemmia si fa rigorosamente a mano. Le viti vengono potate in modo che le foglie facciano da ombrello naturale ai chicchi d’uva, proteggendoli dall’eccesso di sole andaluso (che rischia di passificarli ed eleva i gradi alcolici). Persino le tante lumache che compromettono la salute dei vigneti vengono cacciate una a una scuotendo gli alberi, pur di non dover utilizzare pesticidi. Il raccolto si fa di notte, per evitare che la frutta soffra al caldo nel momento in cui viene staccata dal ramo, e vengono scartati uno a uno i chicchi imperfetti, compresi quelli leggermente sbeccati dagli uccelli. Solo i migliori affrontano le fasi successive del processo di produzione – dal mosto alla doppia fermentazione, fino all’invecchiamento (durante 6, 12 o 14 mesi) in botti di quercia francese, che dà corpo e interesse al vino. Per lo più, il nome di Descalzos Viejos si lega ai rossi, ma l’intenzione dei proprietari è di aumentare la produzione dei bianchi nel prossimo futuro.
Le botti sono collocate nella stanza in assoluto più suggestiva della cantina: una vecchia cappella in cui si intravvedono dei coloratissimi affreschi del diciassettesimo secolo, e che Carmen sfrutterà presto per registrare un disco di improvvisazione dal vivo. Colmata la sete di sapere, è giunta l’ora di colmare la sete vera.
Ci sediamo con l’immancabile Dimitri ai tavolini attorno alla piscina per gustare un rinfrescante Chardonnay e due varietà corpose di rossi, la seconda accompagnata con un piatto di salumi e formaggio stagionato offerto dalla casa.
La conversazione fluisce in proporzione diretta all’aumento della gradazione alcolica. Le guance dei presenti prendono colore e la curiosità per la vita dell’altro si fa strada oltre la timidezza, rendendo il dialogo sempre più piacevole. Sto così bene a parlare di musica con Carmen e consigliare ristoranti di Málaga a una coppia di neo-sposi che rimarrei qui tutto il giorno. L’orologio, però, dà l’ultimatum: ho già spostato due volte l’appuntamento per pranzo e non voglio certo far aspettare ancora Maria.
TAPPA #2: LA LATTUGA PIÚ FAMOSA DI RONDA
Mi congedo quindi dalla splendida bodega-monastero, per raggiungere (questa volta in taxi!) El Lechuguita, uno di quei bar storici che proprio non potete perdervi se visitate Ronda. Non ci metterete molto ad accorgervi che la gente del posto lo adora: verso le tre del pomeriggio – ora di pranzo per i ritmi di vita andalusi – la fila per entrare gira l’angolo, estendendosi per svariati metri lungo il marciapiedi della strada accanto.
E no, non accettano prenotazioni. L’unico modo per trovare un posto è (forse) andarci presto, in orario italiano. O avere la fortuna che qualcun’altro si aggiudichi un tavolo per te.
Io ho avuto fortuna.
María, la simpaticissima responsabile del Turismo Costa del Sol, si sbraccia per salutarmi dalla sala interna, pronta ad accompagnarmi in quest’avventura gastronomica.
Gli ingredienti del successo de El Lechuguita mi appaiono chiari ancor prima di ordinare: è economicissimo (le tapas costano, in media, 2 euro ciascuna) e super centrale. Insomma, il tipico posticino in cui andresti ogni fine settimana con gli amici per spizzicare qualcosa senza vendere un rene. Prima che il virus arrivasse a stravolgerci la vita, era famoso per l’atmosfera festaiola che si respirava al suo interno, dove le persone erano solite consumare pasti e bibite gomito a gomito sul bancone.
Oggi la clientela è, invece, costretta a sedersi ai tavoli, regolarmente distanziati. A Ronda lo attestano con una certa malinconia, ormai rassegnati a un cambiamento che dicono abbia ferito a morte lo spirito del locale. Sia come sia, la qualità del cibo non sembra averne risentito. Se ci andate, vi consiglio di provare i funghi alla piastra, gli spiedini di gamberi, le crocchette fatte in casa… e, ovviamente, l’immancabile lattuga!
É a lei che il bar deve il nome con cui tutt’ora si conosce. Quando aprì, nel 1966, il proprietario era solito offrire una foglia di lattuga (in spagnolo, lechuga) assieme alla birra: una tapa decisamente singolare che fece presto parlare di sé, e che ancora oggi è l’indiscussa specialità del luogo. Tutti la vogliono. Tutti la ordinano. Tutti la mangiano. E sapete che c’è? Che fanno pure bene! Lo so cosa state pensando: “Cioè, vai a Ronda e mangi un’insalata?”. Si era dipinta anche a me, quell’espressione perplessa sul volto. Invece, vi assicuro che è BUONISSIMA. Non saprei dire cos’è, ma c’è qualcosa di speciale nel modo in cui la condiscono, che ne rende il sapore unico. Sarà pure una lattuga, ma io così non l’avevo mai provata.
TAPPA #3 – RICARICARE LE BATTERIE
Con la pancia piena e la beatitudine dipinta in volto, torno all’Hotel San Francisco per una meritata siesta. La stanza è piccola, ma dotata di tutti quei beni di prima necessità che una ragazza del ventunesimo secolo brama – e non sempre trova – fuori casa: una fugace perlustrazione mi permette di apprezzare un sacco di prese di corrente per ricaricare i device elettronici, una piccola scrivania estraibile per smanettare tranquillamente col computer, le bustine con le salviette struccanti in omaggio, un phon (nel caso in cui il Terral non bastasse), il wifi, l’aria condizionata funzionante, la Tv, e ben due specchi a figura intera (chiunque sia abituato a viaggiare sa che sono merce rara). Tolgo la mascherina e le scarpe, incapace di decidere quale dei due gesti mi dia più soddisfazione. Mi butto sul materasso, e dò il benvenuto all’oblio.
TAPPA #4 – UNA PASSEGGIATA IN CENTRO
Un’ora dopo, la batteria del cellulare è di nuovo carica al 100%, e neanche quella del mio organismo, tutto sommato, è messa male. Una doccia al volo e corro via, verso gli incanti del centro storico. Perchè va bene mostrare il lato più autentico di Ronda, ma sarebbe un delitto per gli occhi ignorarne il monumento più emblematico. Costruito tra il 1751 e il 1793, il Puente Nuevo è un’opera di ingegneria che sembrava sfidare l’impossibile nell’epoca in cui venne realizzata. In effetti, il primo intento di costruzione fallì miseramente, trascinando nel dirupo le vite di oltre 50 persone. Ma è dagli errori – anche quelli fatali – che si impara, e l’architetto Don José Martín de Aldehuela (che fu a capo dei lavori per oltre 40 anni) imparò decisamente bene.
Alto 98 metri, a tutt’oggi questo gigante di pietra se la cava egregiamente nel collegare la parte più antica della città a quella più moderna, mentre gli “oh” e gli “ah” sfuggono incontrollati dalle bocche dei turisti che, per la prima volta, vi si trovano di fronte. É una coppia di mani robuste. Una sutura di gran classe. Una cartolina. Il ponte è una cerniera zip che in qualche modo tiene assieme i due lati di un burrone, sormontati come neve da un cumulo di casette immacolate. Circondandolo, attraverso il tripudio di musica e colori dei giardini per raggiungere quello che popolarmente si conosce come “balcón del coño”: un balcone a strapiombo sulla natura con una vista mozzafiato sulla valle circostante. É stato ribattezzato così perché si dice che chiunque vi si affacci si ritrovi inevitabilmente ad urlare: “coño!”, espressione volgare spagnola traducibile da noi con un’altra esclamazione non proprio fine che inizia per c.
E io lo direi, beninteso, foss’anche solo per rispettare la tradizione. Invece, devo accontentarmi di ammirarlo da lontano: al momento è, infatti, in atto il soundcheck di un concerto che si terrà la sera stessa. Poco male. Le cose da vedere, a Ronda, certo non mancano. Tra le tante opzioni, scelgo di visitare il Ponte all’interno, scendendo una rampa di scale per godermelo da una prospettiva insolita e investigare un po’ di più sul suo passato. L’ingresso costa 2,50 euro, e c’è un dispenser di gel idroalcolico all’entrata.
La visita è piuttosto breve, quindi mi rimane tutto il tempo per passeggiare tra le stradine più commerciali della città, zeppe di deliziose pasticcerie, negozi e vita.
TAPPA #5 – LE TAPAS GOURMET DEL TRAGATÁ
Tra una vetrina e l’altra, si fanno in fretta le 20.30: ora in cui María ha prenotato per cena. La raggiungo al Tragatá: un ristorante di pretese quasi opposte al Lechuguita, che mi permette di provare in un solo giorno le due anime della gastronomia rondeña. Dopo la cucina popolare, è la volta di qualcosa di un po’ più sofisticato.
Di proprietà di Benito Gómez, chef decorato con 2 stelle Michelin, il Tragatá reinterpreta la tradizione culinaria andalusa in chiave contemporanea e con un tocco creativo, guardando spesso alle suggestioni d’Oriente e inseguendo l’ambizioso obiettivo di offrire alta cucina a prezzi accessibili. Decorato in modo impeccabile, ogni tavolo fornisce agli ospiti un enorme codice QR stampato su legno, attraverso cui si accede all’ampia selezione di vini, carne e pesce riportati sul menù.
Noi scegliamo, nell’ordine:
- Le bombe croccanti ripiene di salmorejo e ventresca di tonno in olio d’oliva (consiglio spassionato: mangiatele in un unico boccone o vi esploderanno – letteralmente – addosso ricoprendovi da testa a piedi di zuppa fredda a base di pomodoro. Ve lo dico per esperienza).
- La brioche di pollo al curry verde.
- I mejillones “enfadaos” , che poi sarebbero le “cozze incazzate”. Sono incazzate perché sono piccanti, semmai ve lo chiedeste.
- L’insalata Cesar con lattuga alla brace.
E, infine, il piatto forte: Carré di manzo alla brace con contorno di patate e peperoni fritti.
Un vero e proprio tripudio di sapori che non mi delude in nessuna portata e che vi consiglio caldamente se volete coccolarvi, magari nel contesto di un’occasione speciale.
TAPPA #6: IL RITORNO DEI FESTIVAL
La giornata finisce al Cool Fest, che proprio oggi culmina due giornate di musica dal vivo in una cornice inimitabile: esatto, proprio accanto al ”balcón del coño”. All’aria aperta, con un anfiteatro in pietra a fornire i posti a sedere e numerosi poliziotti a vigilare la zona, il festival aspira a mantenere un certo standard di sicurezza senza privare il pubblico del divertimento che (dopo un anno di silenzio) merita. Sulle note di Santo Drama e Siloé, con una birra in mano, celebro anch’io, assieme a decine di corpi ondeggianti, la speranza che gli eventi live tornino ad essere presto normalità anziché eccezione.
I ricordi ruotano tra le iridi, si accumulano nella memoria del cellulare, giocano coi sogni in una notte esausta. E in men che non si dica, arriva il momento di ripartire. La mattina dopo, sorseggio il caffè sulla terrazza deserta dell’hotel San Francisco, riempiendomi per l’ultima volta gli occhi con la bellezza semplice dei tetti della città che tanti intellettuali amarono.
Poi mi dirigo alla stazione dei bus.
A Málaga ci torno in pullman: un viaggio di due ore davanti a cui qualcuno potrebbe storcere il naso. Però, fidatevi: a volte vale la pena non avere fretta di arrivare. In Andalusia, guardare dai finestrini di una corriera è come rivedere uno di quei bei film di cui non ti stancheresti mai. Una carrellata di natura incontaminata e case bianche arroccate, con le pennellate vivide dei fiori a dar colore alle finestre e le piazze riempite solo dalle risate di qualche ragazzino che gioca a pallone. Un viaggio nel tempo e nello spazio, che in qualche strano modo riesce sempre a curarti l’anima.
Sì, persino ai tempi del Covid.